ARTICO: ULTIMA FRONTIERA. UNA MOSTRA FOTOGRAFICA PER RIFLETTERE SU CLIMA, NATURA E UOMO

di Francesco Raimondi

Il 25 marzo 2018 chiude una mostra fotografica il cui livello è estremamente alto. Non solo per le fotografie esposte, ma anche per la potenza del messaggio che lascia filtrare nella mente dell’osservatore. Non un testo (se non una breve introduzione all’ingresso), non una didascalia ma solo immagini. Eppure, immagini così forti da avere la stessa capacità di parlare di pagine e pagine scritte.

La mostra Artico – Ultima Frontiera, a cura di Denis Curti e Marina Aliverti, espone una sessantina di fotografie di Paolo Solari Bozzi, Ragner Axelsson e Carsten Egevang, tre maestri della fotografia di reportage. Fotografie che per stile – in bianco e nero – e soggetti sembrano anacronistici, appartenere ad un tempo lontano e remoto. Le immagini sono state tutte catturate in Groenlandia, Islanda e Siberia.

Ma la mostra non è solo concepita per esaltare la bravura dei tre fotografi e la loro capacità di cogliere l’istante necessario a distinguere un fotografo da un “umano che scatta una foto”. No, tutta l’esposizione filtra un di più: portare alla luce (e il mezzo fotografico, anche per il suo modus operandi fisico e chimico, è il più appropriato) tutte quelle problematiche legate al surriscaldamento globale, la sostenibilità ambientale ed un rapporto più armonico tra uomo e natura. Uomo e spazio naturale. Per fare ciò tante sono le immagini che catturano momenti di vita quotidiana degli Inuit, che vivono – nelle difficoltà di un ambiente ostile come quello artico – un rapporto di scambio semplice con la natura.

Una realtà che purtroppo potrebbe essere prossima all’estinzione: perché quello che noi abbiamo potuto osservare, quello che queste immagini ci hanno evocato e portato a riflettere è come l’essere umano moderno – nel ricercare sempre più il benessere e il progresso – stia consciamente distruggendo tutto ciò che è diverso e opposto da questi macabri ideali e valori.

Così si vedono popolazioni tradizionali che sempre più faticano nella loro quotidianità non a causa di contingenze naturali o difficoltà proprie, ma al sempre più rapido lavoro di distruzione della Terra che la razza di uomini che domina su essa perpetua con grande enfasi e vigore. Perché? Perché non tornare ad avere un rapporto simbiontico con la natura, la terra e gli animali?

Nelle fotografie che raffigurano Inuit nei loro momenti di vita (così come anche solo negli scatti più propriamente paesaggistici) si sente e percepisce una pace che va al di là della nostra (forse) bianca e occidentale comprensione. Vedere come abbiano anche saputo, nel corso dei secoli e millenni, dialogare e rapportarsi coi propri cani è fantastico: l’uso dei cani è meraviglioso. Dei cani da slitta – nella fattispecie, nelle fotografie esposte, quasi tutti Groenlandesi – che compiono il loro lavoro di traino… ma lo fanno in virtù di uno scopo di vita ed esistenziale. Di collaborazione con quegli uomini che non sono i loro padroni, ma compagni di una vita dura. E per sopravvivere si deve necessariamente lavorare insieme.

Una mostra che rimarrà aperta ancora pochi giorni, ma che consigliamo vivamente. Come affermano ormai molti scienziati e climatologia, probabilmente abbiamo superato il punto di non ritorno; il riscaldamento globale non può essere fermato. Ma forse rallentato.

Per questo, a nostro avviso, si deve decidere palesemente e in trasparenza da che parte stare: con il progresso e il benessere moderno o l’antica tradizione che vede l’essere umano una parte del tutto? Dominare o rispettare il nostro ruolo nel mondo? La morte o la vita?

 

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Artico – Ultima Frontiera
a cura di Denis Curti e Marina Aliverti
Triennale di Milano 8 febbraio – 25 marzo 2018
orari:
martedì – domenica
10.30 – 20.30
Ingresso libero

GOYA: UN ARTISTA CHE SAPEVA VEDERE!

di Francesco Raimondi

Anni fa, durante le lezioni di Iconografia e Iconologia all’Università tenute dal Prof. Bellini, rimasi molto colpito da un artista e dalla sua capacità – anche a distanza di secoli – di saper interrogare noi piccoli e semplici uomini. Questo artista, di nome Francisco Goya (ma come lui tanti altri), non ha fatto altro che far nascere in me una domanda: sono utili le opere d’arte? Una domanda che, a distanza di anni, continua a risuonare nella mia testa. E le risposte che provo a dare sono sempre molte, spesso anche contraddittorie. Resta il fatto che quel corso universitario, quel Professore e la spiegazione sul lavoro dell’artista spagnolo cambiarono per sempre il mio modo di approcciarmi agli artisti, sia quelli del passato che i contemporanei.

Francisco Goya (1746-1828), pittore ed incisore spagnolo, fu sicuramente un artista che non ebbe paura di utilizzare l’arte come strumento. Goya è senza dubbio uno dei massimi esponenti della pittura iberica, ma di grande significato sono anche le sue produzioni grafiche. Come solo i veri artisti riescono a fare, anche Goya riesce a vedere – e perciò a mostrare – realtà e soprattutto verità che altri non riescono a cogliere. Egli è riuscito ad indagare, nelle sue incisioni, le piaghe più oscure della sua società, le quali per molti aspetti sono simili alle nostre. Ecco dunque l’esempio dell’opera di un artista capace di comunicare – attraverso forme significanti – anche al nostro secolo. La sua attività di incisore inizia intorno al 1776. È però nel 1798 che dà alle stampe e diffonde la serie di ottanta incisioni conosciute col nome de I Capricci. Prevalentemente acqueforti, I Capricci trattano tematiche riguardanti la prostituzione, la superstizione, l’abuso di potere e la stupidità della classe nobile, il clero, la fortuna, i medici, i metodi d’insegnamento scolastico e i ciarlatani.

Alla base di ogni singola incisione de I Capricci è riportato il titolo, il quale è uno strumento utile per poter comprendere il significato dell’opera.

Oltre a I Capricci e altre incisioni, Francisco esegue anche la serie di incisioni intitolata I Disastri della Guerra. Ottantatre lavori realizzati tutti tra il 1810 e il 1820. Si tratta di opere “monotematiche”, aventi come soggetti la guerra e tutti i propri atroci orrori.

Queste opere grafiche non sono solo “belle” perché conducono l’osservatore ad un’estasi emozionale, dovuto alla maestria stilistica e tecnica dell’artefice; sono soprattutto lavori utili, poiché ciò che emerge è la loro capacità di comunicare significati.

Prendiamo come esempio tre incisioni, a cui sono particolarmente affezionato: due tratte dalla serie de I Capricci ed una da I Disastri della Guerra.

Nessuno si conosce (Capriccio n.6)

In primo piano si vede una fanciulla in maschera che riceve delle attenzioni da un giovane (vestito in maniera ambigua: infatti non si comprende se sia un uomo o una donna), anch’esso mascherato. Tutt’intorno, travestiti e indossanti maschere e camuffamenti, altri tre personaggi. Con questa incisione Goya rappresenta l’uomo nel mondo: tutti si mascherano. Il genere umano vive dietro una maschera. Ci si maschera per convenzione, ossia per restare all’interno di schemi sociali prestabiliti oppure in maniera fraudolenta, con lo scopo di ingannare l’altro. Ad esempio, il giovane che si inchina e si presenta alla fanciulla è mascherato con l’intenzione di ingannare: non si capisce chi sia in realtà. È un uomo – come sembra – o è una donna? Insomma, tutto il mondo è probabilmente una maschera, e come tale una finzione perché ciascuno vuol sembrare quel che non è. Viene sollecitata la nostra coscienza a porsi una domanda: noi, nella nostra vita, indossiamo maschere? Credo che la risposta possa essere affermativa: nessun essere umano è esente dal possedere maschere! Purtroppo.

Che gran parlatore / Que pico de Oro (Capriccio n.53)

Questo Capriccio è estremamente attuale. Goya mostra qui un’immagine che dovrebbe suscitare uno shock ed indurre gli individui a svegliarsi. Un pappagallo, dall’alto di un pulpito/tribuna, parla con arguzia e retorica, imprigionando il pubblico in una gabbia di illusioni, attraverso le sue false promesse. La gente ai piedi del pappagallo ascolta estasiata, ma è cieca (ha gli occhi chiusi): non vede l’illusione e la falsità delle promesse che ascolta. E il pappagallo illude, è mentitore: infatti, dietro esso, si trova una maschera. Ma il pappagallo ha anche un ulteriore significato: non è solo colui che consapevolmente sostiene menzogne, non è solo l’imbonitore professionista. Personifica anche chi ripete idee e concetti non suoi per affabulare le folle: viene “imboccato” da altri, parla per conto di altri, occultando ciò che le sue parole significano davvero. E la folla crede al pappagallo. Questo pappagallo può essere chiunque: un chierico, un politico, ecc.. È colui che mente al popolo. Quanti pappagalli nelle nostre vite? A quanti siamo tristi servitori?

 

 

Le guerre e le rivoluzioni a cui assiste Goya sono tremende. I Disastri della Guerra possono essere considerate delle riflessioni sulla brutalità della guerra e sulle sue efferatezze: nulla di positivo porta la violenza e la guerra. Fa solo emergere l’animalità dell’uomo. E un postulato, forse veritiero: l’uomo, per sua natura, non è buono! Visti i tempi oscuri in cui viviamo, credo che anche questa seria sia estremamente attuale.

Perché mai?

Tre soldati hanno appena impiccato un uomo (probabilmente un militare di schieramento opposto o addirittura un contadino inerme ed indifeso). Nonostante l’impiccagione sia andata a buon fine e il poveretto risulti ormai morto, riportando sul volto i segni di atroci sofferenze, i tre soldati infieriscono ulteriormente tirando l’uomo per le gambe e facendo ulteriormente tendere la corda: si avventano con calci sul corpo esanime dell’uomo. E allora Goya si domanda Perché mai? Perché tanta brutalità gratuita? Perché? Vengono alla mente le vessazioni a cui i prigionieri di Guantanamo furono sottoposti; vengono alla mente le umiliazioni che i civili di tutte le guerre debbono subire; non ultimo, tornano alla mente le sofferenze e le dignità lese che subiscono le centinaia di migranti che arrivano nella nostra cara e vecchia Europa.

 

L’opera incisoria di Goya fa parte di quei lavori che non possono lasciare indifferente chi li osserva, poiché trattasi di opere davvero “classiche” ossia destinate a parlare sempre agli uomini, di ogni epoca e di ogni tempo. Ma questi uomini avranno la forza di leggerle davvero? Noi, tutti noi, avremo la forza di saperle ascoltare? Di saperle guardareosservarevedere?

Per voi, le opere d’arte sono utili? Per voi, a cosa servono?

IN ITALIA L’ARTE DOMINA OGNI COSA

di Nicolò Raimondi

«A parte la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima, l’Italia è l’unico paese in cui ci si senta convinti che l’arte domina davvero ogni cosa. E tale convinzione infonde coraggio».

Queste sono parole scritte da Čechov in una lettera dell’1 aprile 1891. Incredibile. 1 aprile 1891. L’Italia non si era da molto tempo unita. Ma si sono fatti passi avanti? Abbiamo compreso che l’arte nel nostro splendido paese domina ogni cosa? In pochi forse. E, cosa ancor più complessa, stiamo cercando di dare valore al nostro patrimonio investendo denaro e ricavando denaro senza impatti negativi? Sì, le intenzioni a farlo sono sempre molte, ma pochi quelli che ne sono convinti, o meglio, pochi tra coloro che possono dare determinate direttive. In quella frase di Čechov è riassunto tutta la natura del nostro paese. E non deve essere retorica, crediamoci davvero e facciamo in modo di alimentare il nostro coraggio da questa convinzione. Dietro casa nostra c’è una villa del ’500 e non l’abbiamo mai visitata? Bene, è giunto il momento di farlo, pagando il biglietto e investendo nel nostro piccolo nella conoscenza di un tesoro.

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C’è un bellissimo museo in città? L’ho già visitato quando ero alle elementari? Ma conviene andare di nuovo! Sicuramente il mio bagaglio personale è aumentato e potrò godere maggiormente la visita. Uso molto i social network? Perfetto, invece che postare sempre dei selfie mentre bevi birra e fai grigliate o “sbaciucchi” la fidanzata, posta video, foto, articoli, iniziative, presentazioni di libri, eventi e tutto ciò che desidera valorizzare la bellezza del nostro paese. Non arrendiamoci all’idea del nostro paese noto solo per pizza, spaghetti e mandolino. Siamo anche questo ma elevato a potenza, nobilitato. Per farlo, però, occorre partire dal nostro piccolo, poiché ormai, forse, da chi gestisce in sontuosi palazzi i beni culturali non possiamo aspettarci una prima mossa sensata e positiva a 360°.

Appelliamoci all’articolo 9 della nostra Costituzione, facciamolo valere. Dobbiamo essere convinti delle nostre potenzialità; convinti che si possa davvero vivere di cultura vera, senza sporcarci solo la bocca nel dirlo; convinti che se manca credibilità nei piani superiori, la si può trovare in riva al lago, in una biblioteca o in una torre medievale. E tali convinzioni infondono coraggio (#guardacomecechov), a tal punto che dovremmo fare nostre, noi italiani, le parole che ancora Čechov scrisse in una lettera del 2 febbraio 1901: «Che paese meraviglioso è l’Italia! Un paese straordinario! Qui non esiste un angolo o dito di terra che non sia altamente istruttivo».

A VARESE IL FAI CERCA “SOGNATORI” VOLONTARI!

di Irwen War Gurb

Il FAI lo conosciamo tutti. Il Fondo Ambiente Italiano. Per molti aspetti si può considerare come una nobile istituzione. I suoi fini risultano essere nobili. I suoi sforzi vanno sicuramente valutati molto positivamente.

Nonostante tutto ciò, ci sembra che il FAI, a volte, sia anche l’espressione del fallimento della politica statale riguardante il patrimonio culturale e ambientale pubblico: Il MiBACT è un ectoplasma e il FAI fa da supplente, spesso in maniera anche egregia, gestendo un immenso patrimonio fatto di ambiente, arte, storia.

Ma il FAI, in un momento storico come quello attuale, ha qualche cosa di sbagliato: i volontari. Sì, perché viviamo in anni in cui i professionisti dei beni culturali (storici dell’arte e archeologi in primis, ma anche archivisti, guide abilitate, ecc.) sono tanti a scapito della scarsa quantità di posizioni lavorative retribuite disponibili. Sebbene la situazione risulti critica, la lodevole Fondazione, in questo momento di forte “disagio occupazionale” in un settore come quello artistico, cerca volontari.

E’ quello che sta succedendo nella provincia di Varese, con una campagna pubblicitaria alquanto umiliante per molti giovani storici dell’arte e affini in cerca di un lavoro. Qui si cercano volontari per i siti FAI di Villa e Collezione Panza, di Villa della Porta Bozzolo e per il Monastero di Torba per le mansioni più disparate: seguire le visite guidate, accogliere i visitatori, eseguire piccoli lavori di manutenzione e di giardinaggio, organizzare e promuovere eventi! Tutta questa “ricerca” è fatta – a nostro avviso – con una campagna che lede la dignità di quanti sono senza lavoro. Infatti, nel manifesto “cerca allodole” si legge a caratteri cubitali CERCHIAMO SOGNATORI e “cerchiamo chi è innamorato dell’arte e della natura del nostro Paese e vuole contribuire concretamente a proteggerlo”. Davvero non ci sono parole!

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Ovviamente sulla pagina del sito FAI dedicata, si sono ben visti da pubblicare una simile un annuncio così “moralmente forte” (http://www.fondoambiente.it/Cosa-puoi-fare-tu/Index.aspx?q=faivolontario-volontari-cercasi-a-varese)

Ora sorge una domanda. Perché in tale Fondazione, da quello che sembra dica il sito, ci sono 216 persone impiegate e stipendiate ma si cercano volontari? Questi ultimi sono più di 7.000! (http://www.fondoambiente.it/Chi-siamo/Index.aspx?q=la-nostra-storia) O tutti prestano gratuitamente la loro persona per svolgere, come servizio benefico, un’attività nel FAI, oppure si assumono persone…senza patetiche campagne alla ricerca di sciocchi sognatori!

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Non è giusto che un’istituzione che ha dei dipendenti regolarmente retribuiti si affidi anche ai volontari. In fondo è come se un’azienda di elettrodomestici stipendi i vertici della stessa, le segreterie e reparti affini per poi affidarsi ai volontari da qualificare come operai e quant’altro!

Oggi, le uniche forme di volontariato che ci sentiamo di supportare sono quelle legate alla gratuita donazione del sangue, o del midollo spinale; o tutte quelle associazioni i cui scopi e le cui attività vengono gestite tutte da volontari che, oltre alla propria professione, decidono di “donare” altro di sé in differenti settori.

Ma se in un ambito, come quello artistico, vi sono dei professionisti che potrebbero fare – retribuiti – una determinata mansione, perché ricercare al loro posto dei semplici volontari? Slogan, ma la verità è che fanno comodo perché il costo è zero!

Crediamo che il FAI possa diventare una struttura capace di compiere grandi cose. E già oggi è in molti aspetti una magnifica realtà italiana. Ma purtroppo dietro essa si nasconde da una parte il fallimento di una politica pubblica su un patrimonio collettivo, come quello dei beni culturali e del paesaggio; dall’altra è la conferma che lavorare stipendiati nel settore storico artistico in questo paese chiamato Italia è sempre più una cosa per SOGNATORI!

No lavoro gratuito

NOI NON SIAMO IL 99%, SI O NO? SUL REFERENDUM E DINTORNI

di Luca Battistini

Nel momento in cui si incendia il dibattito sul prossimo referendum, a poco più di un mese di distanza dalla chiamata alle urne, anche l’Oblò dell’Arte vuole provare a riflettere insieme ai suoi lettori. Non vantando nessun giurista in redazione, ci riserviamo di non approfondire il profilo meramente tecnico della vicenda; individueremo invece il tema principale del referendum, intorno al quale verteranno le nostre considerazioni: scriveremo del proposito di rafforzamento del potere esecutivo a scapito degli organi di rappresentanza, del governo ai danni di parlamento e senato.

Innanzitutto occorre ricordare che il 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci, e quindi a giudicare. Nessun giudice può esimersi dall’analizzare le motivazioni che stanno dietro a un gesto –  in questo caso a una volontà di riforma: un ferimento dettato da legittima difesa è ben diverso da un pestaggio premeditato, e i due imputati riceveranno un giudizio altrettanto diverso. Per non perdersi nei meandri dei tecnicismi giuridici di questa immensa proposta di riforma (che investe ben 47 articoli, contro i 43 modificati in 70 anni di storia della costituzione italiana), occorre tentare di inquadrare la reale motivazione che ha spinto i legislatori Renzi e Boschi a prendere un’iniziativa di simile importanza. L’attuale governo sta cercando di modificare radicalmente il sistema governativo, elettorale e parlamentare: perché secondo loro un esecutivo più forte sarebbe maggiormente desiderabile dell’attuale situazione di bicameralismo perfetto?

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Le risposte potrebbero essere tante, e molte tra queste potrebbero anche risultare più che puntuali: l’Italia ad esempio è stata ingovernabile per decenni, e questo potrebbe essere un movente da “legittima difesa”. Lo spunto più pertinente però, che dal nostro punto di vista porta a propendere per la premeditazione, ci viene fornito dal colosso finanziario statunitense J. P. Morgan in un suo documento pubblicato il 28 maggio 2013, una relazione che, per quanto conosciuta e agilmente consultabile (https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf), non gode ancora della popolarità che secondo noi meriterebbe. I ricercatori americani, dovendo trovare la causa dell’incapacità dimostrata dai paesi dell’Europa meridionale nel mettere a punto una soluzione alla crisi economica (che peraltro ancora li affligge), scrivono a pagina 12 nel capitoletto “Il viaggio della riforma politica nazionale”: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è divenuto chiaro che ci sono problemi politici profondamente sedimentati nella periferia [tutti i grassetti sono nostre aggiunte; ndr] che, dal nostro punto di vista, devono cambiare se l’Unione Monetaria Europea funzionerà a dovere nel futuro».

E quali sarebbero questi spiacevoli problemi?

«I sistemi politici e costituzionali periferici presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni [due punti importanti sui quali si propone di intervenire la riforma costituzionale], tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori [già minati da questo governo col Jobs Act, pur non essendo stata una riforma costituzionale], tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo [unico reale difetto del nostro paese tra quelli in elenco], il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi [c’è davvero bisogno di commentare?]. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».

Prima riflessione: stando alle recenti parole rilasciate del presidente uscente Obama a Federico Rampini («Le misure di austerità hanno rallentato la crescita dell’Europa»; http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/obama_intervista-150003856/), i paesi “periferici” oggi dovrebbero ringraziare alcuni dei loro “problemi politici profondamente sedimentati” che hanno parzialmente impedito l’attuazione di “percorsi di riforme economiche e fiscali” che avrebbero nuociuto all’economia. Un esecutivo forte avrebbe sicuramente incontrato meno difficoltà nell’approvare misure di austerità, a quel tempo invocate a piena voce dagli economisti europei. Perciò viene da supporre che Obama abbia la memoria corta, oppure che cada in contraddizione (e per lui non sarebbe certo una novità) quando condanna l’austerità e approva l’amico Matteo col suo progetto di riforma, cercando i tutti i modi (vedi le dichiarazioni dell’ambasciatore americano in Italia e l’ultima cena ufficiale in onore del nostro premier) di convincere gli elettori italiani a votare sì.

Seconda riflessione: un mio caro amico greco, parlando del nostro referendum, ha definito auspicabile la possibilità che i cosiddetti tecnici si occupino di questioni delicate come le riforme costituzionali o la permanenza nell’Unione Europea. Devo ammettere che anch’io ho avuto lo stesso pensiero il giorno della Brexit (non lo avevo pensato invece nel caso del referendum promosso da Tsipras e rimasto inattuato), poi mi sono chiesto se questa possibilità fosse davvero qualcosa di così desiderabile. I tecnici, in periodo di crisi, avrebbero preso decisioni e attuato riforme che in molti col senno di poi avrebbero definito inadeguate e nocive (vedi Obama). Occorre inoltre domandarsi: in nome di quale principio e di quale ideale questi tecnici prendono le loro decisioni? Perché, ad esempio, i tecnici devono sempre essere scelti tra economisti (vedi Mario Monti e Tito Boeri, quest’ultimo annoverato tra i possibili candidati a “rilevare” Renzi in caso di governo tecnico – e sarebbe il quarto primo ministro consecutivo dal 16/11/2011 a oggi a non essere eletto dagli italiani) e mai tra sociologi, giuristi, antropologi, storici, filosofi, pedagoghi o esperti di scienze umane?

L’ultima parola sulle riforme da attuare e sulla direzione globale da intraprendere spetta sempre e solo ai tecnici dell’economia. Non però a coloro i quali dichiarano pubblicamente che con la cultura non si mangia: un tale teatrino sarebbe infatti davvero di pessimo gusto. I tecnici invece hanno sempre un profilo basso, non attirano l’attenzione con simili provocazioni; al contrario sono rassicuranti, si commuovono quando annunciano i loro tagli, prendono decisioni amare ma inevitabili che nessun politico avrebbe mai avuto il coraggio di attuare…

Un’altra riflessione: perché poi i tecnici economisti sono sempre neo(ultra)liberisti? Perché non si considera mai la possibilità di valutare la sensatezza delle idee e dei modelli di altri economisti, come ad esempio quelli di John Maynard Keynes? Il barone britannico sosteneva che l’economia si aiuta con la spesa pubblica aumentando il potere di acquisto dei consumatori, mentre con i tagli e le revisioni di bilancio (supplichiamo il mondo editoriale di eliminare il termine spending review dal vocabolario italiano!) la si affossa. Ma come può uno stato fortemente indebitato aumentare la propria spesa pubblica (manovra sconveniente a breve termine, ma conveniente nel lungo periodo) se deve rispettare criteri finanziari duramente stringenti e poco realistici come quelli che la BCE impone ai paesi dell’Unione Monetaria? E a proposito degli organi di (in)formazione: perché la stragrande maggioranza dei mass media si allinea alla logica neo(ultra)liberista delle banche centrali, delle grandi società finanziarie e di questi benedetti tecnici? Nessuno ne mette in discussione i principi, che vengono quietamente accettati come naturali e inevitabili; non andrebbero confutate le conclusioni “incontrovertibili” dei tecnici, ma proprio le loro idee! Il problema è la logica stessa che detta e decide queste conclusioni!

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Quali sono invece le nostre conclusioni? Noi riteniamo che la scelta referendaria non riguardi solo le numerose proposte di riforma della carta costituzionale. Riteniamo che la scelta riguardi la propria personale presa di posizione rispetto a un modello economico che vorrebbe imporsi come naturalmente egemone e che trova nelle costituzioni che «tendono a mostrare una forte influenza socialista» (affermazione discutibile reperibile nello stesso documento, nello stesso capitoletto, sempre a pagina 12) un fiero avversario. Un modello che trova sconvenienti le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori” e le “proteste per cambiamenti sgraditi”, che invece in una democrazia dovrebbero essere pienamente accettate come basi per un sincero confronto e un dialogo costruttivo. Quel genere di confronto che richiede tempo, sforzo, senso di rispetto e responsabilità. Quel confronto del quale un governo forte potrebbe fare a meno (si pensi all’incredibile premio di maggioranza previsto dalla riforma) per adottare misure sgradite alla popolazione, sempre più frequentemente imposte dall’Unione Monetaria Europea.

Italiani, vogliamo favorire la diffusione di un’economia neo(ultra)liberista che acuisce le disuguaglianze e che soprattutto va a minare i diritti sociali dei cittadini?

La risposta per noi è ferma e decisa: un secco e tonante No!

Vengano le popolazioni prima dei profitti, i diritti delle persone prima delle esigenze del mercato.

La cultura prima delle merci.

IL NOBEL ALLA LETTERATURA A BOB DYLAN. E C’E’ CHI (INGIUSTAMENTE) SI INDIGNA!

di Francesco Raimondi

Bob Dylan ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2016. Si può non essere d’accordo o essere entusiasti. Poco importa, anche perché in questi ultimi decenni il Premio Nobel è diventato un po’ come il Pallone d’Oro: spesso lo vince chi poco lo merita. Pensiamo che anche Barack Obama è un Premio Nobel per la Pace: quindi si capisce bene la scarsa serietà di questi accademici scandinavi.

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Però, perché c’è un però, Bob Dylan lo ha meritato! Sì, perché lui ha fatto dell’arte uno strumento sociale, politico, civile. Ha fatto sì che l’arte sia utile. Nel suo caso la musica. Perché una cosa è certa: la musica è letteratura, quando le note sono in simbiosi con parole che vanno al di là delle semplici lettere.

Nonostante questo, alcune personalità di spicco del mondo si sono stracciati le vesti. E la provinciale Italia (o parte di essa) sì è indignata, non volendo essere da meno.

Sì, perché tra i più accaniti indignati c’è lui. Uno che dovrebbe essere uno scrittore: Alessandro Baricco. Quest’ultimo, dall’alto della sua elevazione letteraria, ha dichiarato, come riportato dal Corriere della Sera

“Alessandro Baricco, ad esempio, non è convinto, e nella dichiarazione riportata dall’Ansa, afferma che Dylan «è un grandissimo. Andare a un suo concerto oggi è una delle esperienze più grandi ed emozionanti che si possano fare nello spettacolo. Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a capire che cosa c’entri con la letteratura»”.

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Crediamo fermamente che la musica sia poesia, sia letteratura e come tale meriti una considerazione letteraria. Potremmo quasi chiederci, allora, cosa c’entrino molti cosiddetti scrittori con la letteratura! Addirittura, cosa c’entrino coi libri! Opinioni. In fondo l’Italia è un luogo strano: la sua editoria di spicco pubblica solo testi e libri di “gente nota” (si veda l’articolo LEGGERE, LEGGERE…MA NON PROPRIO TUTTO), non investendo più in giovani scrittori. Probabilmente la domanda da farsi è: esiste ancora la letteratura e il rispetto per lo scrivere?

Ma, forse, la “letteraria uscita” di Alessandro Baricco dimostra come questo paese, e quella categoria aberrante dei cosiddetti intellettuali, viva a scompartimenti stagni: musica, pittura, letteratura, poesia. Io la chiamo semplicemente arte. La musica utilizza parole, e se queste vengono armoniosamente composte, e poi musicate, divengono poesia ed infine letteratura.

Al di là di tutto, in Italia non siamo per nulla abituati ad associare le arti tra loro; ad associare musica e letteratura, musica e poesia. E questo lo si può in fondo comprendere: siamo un paese che ha in vetta alle classifiche musicali nazionali gente come Jovanotti, Fedez, J-Ax, Ligabue…  e non aggiungiamo altro che è meglio! In fondo, parafrasando il saccente concetto espresso da Baricco, potremmo anche chiederci cosa c’entrino questi “cantanti” con la musica!

Evviva Dylan. Evviva la sua musica rivoluzionaria!

#nonsonounumero

di Irwen War Gurb

Non sono un numero. Non siamo numeri! Ci scontriamo con una realtà e con una società che sembra vedere solo ed esclusivamente cifre; solo numeri; solo quantità. Tutto ciò che è quantificabile ha valore. La qualità è uno sterile ricordo. L’attenzione alla persona umana è un “sentimentalismo” che non ci si può permettere.

Il cosiddetto mondo del lavoro è diventato quantità. è diventato numero; il mondo del lavoro è solo produzione e il lavoratore un bullone fatto di carne ed ossa, componente dell’ingranaggio dell’economia. L’uomo che diventa schiavo obbediente dell’economia. 

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Ma io non sono un numero. Sono una persona! Un essere umano, con sogni, desideri, progetti, utopie in cui credere. Insomma, un obsoleto.

Perché chi si dedica agli studi umanistici, ma non solo, è “vecchio”, da ancien régime. Non siamo considerati a livello lavorativo. Ci avete mai riflettuto? Avete mai notato che quando si parla di lavoro, di riforme del cosiddetto “mercato” del lavoro (il che dimostra come i lavoratori non sono altro che merce), si discute solo di fabbriche, di imprese, di aziende, di metalmeccanici, ecc…?

Noi, umanisti, dobbiamo accontentarci di squallide riforme della scuola! Di concorsi scialbi e truccati!

Sembra quasi che per i vari istituti statistici non siamo nemmeno lavoratori. E per la politica siamo un enorme peso…da dimenticare!

#nonsonounumero: e lo grido! Ho una dignità. Abbiamo una dignità in quanto esseri umani. E come persone, abbiamo il diritto di lavorare. Non solo, abbiamo il sacro e santo diritto di occuparci di ciò che vogliamo: non è forse sancito dall’art. 4 della Costituzione?

Non sono e non siamo un numero. Abbiamo diritto al tempo libero per dedicarci alle passioni, agli interessi…per vivere!

Mi rivolgo soprattutto a giovani docenti o storici dell’arte, a quanti accettano supplenze scolastiche a decine e decine di chilometri di distanza da casa per soli 300 Euro al mese; o a quanti accettano stipendi e orari umilianti. Basta! Non siete numeri, non siete statistiche. Siete persone.

Non accettate lavori che vi succhiano la vita! Lavorare per 12 ore al giorno, compreso i sabati, non è vivere. Bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare.

Basta stage perenni, smettiamola di accontentarci; non abbandonate battaglie, ideali, valori solo per un’illusoria promessa di “carriera” che non arriverà mai. Mi rivolgo a quanti, pur di un “posto” – anche provvisorio e concretamente senza sbocchi – si fanno sfruttare dimenticando la propria dignità e il senso di giustizia.

Dov’è la vostra dignità?

Credo, e perdonate la durezza, che la dignità della maggior parte dei giovani sia andata nel dimenticatoio! Accettano qualsiasi cosa, anche se ciò uccide la loro dignità.

Dove sono finiti i vostri sogni? I vostri progetti? Se permettiamo che ci prendano anche la dignità di esseri umani, allora i discorsi sulla speranza e sul futuro sono solo illusioni.

Ora mi rivolgo alle aziende, alle società, alle ditte e alle imprese: trattateci da esseri umani. Vi costa molto, ad esempio, rispondere alle e-mail che vi inviano migliaia di persone con curricula per un posto di lavoro? Sarebbe gentile anche rispondere in maniera negativa, purché si dia risposta. Sarebbe da parte vostra un’attenzione umana verso una persona, perché #nonsonounumero.

Cosa fare? Diciamo no ed iniziamo a pretendere! Pretendere risposte, pretendere azioni concrete, pretendere un lavoro serio e dignitoso. Pretendere! 

#nonsonounumero!

P.S.

Art. 4 della Costituzione Italiana (per i più smemorati!)

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. / Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

PIERO DELLA FRANCESCA. UN ESEMPIO DI UNIONE TRA PITTURA, AMBIENTE E TERRITORIO

di Francesco Raimondi

Uno dei motivi per cui agli occhi dei più la storia dell’arte risulta essere semplicemente una masturbazione erudita, un passatempo estivo (neanche troppo); insomma, una delle tante giostre su cui salire, è che non si comprende quale possa essere il suo legame con il presente. La sua effettiva utilità.

Per questo si dovrebbe ringraziare quegli stessi storici dell’arte che fanno delle componenti chimiche e tecniche del quadro (o di qualsiasi opera d’arte) l’oggetto precipuo della disciplina.

Ma per fortuna, alzando gli occhi al cielo, possiamo riscoprire come gli artisti (veri) hanno sempre qualcosa da comunicare: sia essa un’emozione, un messaggio, una sensazione. Nelle opere possiamo trovare quell’attenzione, quella spiccata sensibilità alla natura – ad esempio – che pare essersi smarrita con l’andare dei secoli.

Piero della Francesca, da questo punto di vista, è sicuramente un artista che è stato spesso ignorato. Sì, perché dell’artista di Borgo Sansepolcro si è scritto molto, si è scritto tanto: soprattutto per gli aspetti stilistici, formali, estetici così cari alla cosca longhiana; di Piero hanno anche evidenziato gli aspetti più simbolici ed esoterici (fortunatamente), perdendosi spesso però in una sorta di caccia al tesoro tipica di chi ha difficoltà a comprendere la stessa natura del simbolo, e scambia l’esoterismo (che di per sé è una scienza) con facciamo Superquark, Voyager, Mistero & Co..

"Battesimo di Cristo", 1448-1450 circa, part.

“Battesimo di Cristo”, 1448-1450 circa, part.

 

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #1

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #1

A tale proposito sono state fatte molte ricerche e pubblicazioni riguardo all’estetica, anche paesaggistica, dei lavori di Piero della Francesca (non ne cito nemmeno uno, perché basta scrivere “Piero della Francesca Bibliografia” su Google); addirittura alcuni studi – e trasmissioni televisive – abbastanza ridicoli sulla presenza di elementi strani, misteriosi in alcuni dei suoi dipinti. Certo, tutto lecito, in un mondo invaso dall’illusione dell’erudizione.

Però, a volte, basta alzare gli occhi al cielo, basta osservare l’ambiente, i luoghi e la natura dove gli artisti hanno vissuto per comprendere come non c’è opera d’arte senza ambiente, senza natura.

Non possiamo studiare la storia dell’arte se non siamo in grado di farne anche una disciplina ambientale e naturalistica, che tratti di territorio e di paesaggio; nella sua evoluzione storica.

Tornando a Piero, perché – ad esempio – le nuvole dei suoi dipinti hanno spesso forme insolite: piatte alla base, allungate, a fungo, a cappello? Una visione? Un messaggio nascosto (come spesso alcuni ipotizzano)? No, bensì le nuvole di casa! Sono le nuvole delle sue terre: Marche, Umbria, Toscana.

" Detta Flagellazione", 1450-1460 circa, part.

” Detta Flagellazione”, 1450-1460 circa, part.

 

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #2

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #2

E come il nostro Piero, centinaia possono essere gli esempi.

Viaggiando in quelle terre mi è capitato più volte di scrutare i cieli e vedere le stesse identiche nuvole del nostro pittore. Perché, noi storici dell’arte, dimentichiamo spesso di allargare gli orizzonti della nostra disciplina?

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #3

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #3

"San Girolamo penitente", 1450, part.

“San Girolamo penitente”, 1450, part.

Studiare storia dell’arte è anche lottare per la tutela del paesaggio, dell’ambiente e della natura: in tutti i suoi aspetti. Faunistico, botanico, geografico, idrico. Senza ambiente, senza natura non avremmo l’arte! E trasformeremmo così la nostra disciplina in qualcosa di immensamente utile all’uomo comune… ma forse, prima di capire ciò, dovremo ancora passivamente e inconsciamente costruire Olimpiadi, Ponti sullo Stretto, Grattacieli, Autostrade e Pedemontane, Expo e Fiere, dovremmo ancora assistere a stupri paesaggistici e ambientali in stile The Floating Piers.

Saremo in grado di cambiare?

IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI REGGIO CALABRIA

di Nicolò Raimondi

Poco tempo fa ho visitato il Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e posso dire che vale proprio la pena vederlo. Innanzitutto è comodissimo da raggiungere con i mezzi pubblici (pullman e treno), molto vicino alle fermate.

Recentemente ristrutturato, si presenta molto bene: pulito, ordinato ed efficiente. Ma non è per come appare che merita, quanto per ciò che contiene. Ci sono quattro piani e bisogna seguire un percorso cronologico (dal quarto piano al piano terra) che vede il suo inizio nei popoli preistorici della Calabria per arrivare alla Magna Grecia e concludere con i grandi Bronzi di Riace. Seguire il percorso dà sicuramente senso a tutta la visita e si giunge alla conclusione di essa con un ottimo quadro generale della storia di quel luogo, fino alla Magna Grecia ovviamente. In ogni piano ci sono davvero moltissimi reperti esposti, con ordine e pulizia e con ottime indicazioni. Inoltre in quasi ogni sala vi sono pannelli esplicativi con immagini e cartine che consiglio di leggere, poiché molto efficaci e perché si leggono volentieri senza intoppi linguistici sofisticati, pur rimanendo nel settore e senza abbassare il livello dei contenuti. In molte teche sono anche state ricostruite alcune tombe con gli oggetti originali per offrire un’idea più precisa. Davvero una visita che fa dimenticare anche il tempo, poiché coinvolgente, alimentata senz’altro dall’interesse e dalla passione che può avere il visitatore. E alla fine della visita, il saluto dei due Bronzi.

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Prima di ammirare le statue, si entra in una saletta per vedere un video con sottotitoli da leggere che illustra brevemente la storia del ritrovamento e della collocazione. Purtroppo non si dà il tempo necessario per concluderne la visione, poiché a un gruppo di venti persone circa viene indicato di entrare in un’altra stanzetta dove si viene “sterilizzati” con aria fresca e pulita. Ahimè, facevo parte di questo gruppo e non ho avuto tempo di terminare il video, unica fonte di informazioni, dal momento che nella sala delle statue non vi sono alcune indicazioni o pannelli, unica nota di rammarico che mi è rimasta dopo la visita. Dopo essere stati “purificati” si entra con religioso silenzio nella grande sala e subito i maestosi Bronzi ti accolgono con tutta la loro magnificenza. Ma non sono gli unici nella stanza; infatti ci sono i molto meno noti Bronzi di Porticello, due teste in bronzo che nessuno del gruppo di cui facevo parte è andato a vedere. A parte i soliti noti che usano il flash e sono stati richiamati (anche se non mi sembrava aver visto alcun cartello che lo dicesse e purtroppo non tutte le persone ci arrivano) e a parte i simpaticoni che scattano i selfie con i Bronzi, il silenzio ha aiutato la contemplazione di quella bellezza così antica e dall’inevitabile sapore di mare che ha custodito per secoli le due statue. Dopo circa venti minuti si apre una porta che invita ad uscire, per lasciare spazio ad altre persone che ammireranno i due uomini bronzei.

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Prima di uscire naturalmente si passa da un bookshop, inseparabile amico dei musei, e ammetto che sono rimasto colpito in positivo nel vedere solo libri (magari qualcuno non era molto azzeccato per l’argomento, ma almeno era un libro) e non tutta una bancarella di cianfrusaglie da vendere ai turisti.

Una struttura moderna ma non “contemporanea” (nel senso negativo del termine), ordinata, con un bagno in ogni piano, alcuni punti di informazione con il personale e sale molto grandi ma molto piene. Un consiglio: seguite il percorso indicato dal museo e non fate come alcuni branchi di individui ominidi che, appena fatto il biglietto, si gettano verso la stanza dei Bronzi e si mettono in fila come ad un parco di divertimenti, che non leggono nulla, non guardano nulla ma vorrebbero solo postare sui social che loro i Bronzi li hanno visti. Questi ominidi sono immancabili, sembrano far parte delle attrazioni museali, ma pazienza. Fortunatamente erano altrettanto numerose le persone che seguivano il percorso correttamente e sono sicuramente tornate a casa molto più ricche.

ETICHETTARE LA LETTERATURA È REATO!

di Nicolò Raimondi

A quanti amano il Romanticismo, il Classicismo, l’Ermetismo, il Decadentismo; a chi apprezza sempre lo Storicismo, l’Espressionismo, il Petrarchismo e qualunque ismo possiate trovare. A tutti costoro è consigliato non proseguire la lettura di questo articolo.

Alcuni giorni fa, stavo chiacchierando con un ragazzo che da un anno ha terminato la maturità e ha ormai iniziato un proprio percorso universitario. Tra una parola e l’altra mi cita Walt Whitman e con mia somma gioia pensiamo un po’ al poeta americano. Ad un tratto mi pone una domanda: «Ma pensando alle varie correnti in Italia, Whitman a cosa corrisponderebbe?», che vale a dire: dove inserire Whitman? Ecco uno dei risultati della scuola occidentale figlia dell’Illuminismo, cioè ragionare per compartimenti stagni. Complimenti! E continuiamo con questi libri di testo che non cessano di classificare e catalogare. “Niente male Pirandello, dove lo sistemiamo?”… come se i grandi autori fossero delle confezioni di pelati da mettere su uno scaffale seguendo un determinato ordine. Si sa da sempre che è impossibile classificare determinati autori, eppure si continua a farlo; non solo, ma si procede sempre con gli stessi ritornelli. È importante il contesto, è fondamentale l’atmosfera, ma inscatolare i testi e i loro autori è da ritenersi un reato. Perché? Perché si giudica e noi non possiamo permetterci di giudicare l’autore. O meglio, non con la presunzione di considerarlo un oggetto; occorre discernere, non giudicare. Un testo va capito, non giudicato. E ancora prima di capire, come riteneva Alfieri, bisogna sentire. «Il primo pregio dell’uomo è il sentire» [W. Binni (a cura di), V. Alfieri, Giornali e lettere scelte, Torino, Einaudi, 1949]. Ma a queste parole molti accademici, universitari e non, sembrano essere sordi. Risultati? Molti. Ad esempio bocciare ad un esame per il semplice e stupidissimo fatto che uno studente non si ricorda il nome di un tizio che il protagonista di un romanzo di Calvino incontra una volta soltanto in un parco di Torino. Oppure scrivere un manuale di Letteratura italiana (G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta, Letteratura.it, Monadori, 2012) con immagini a colori, ricco di approfondimenti, con straordinarie aggiunte di altre discipline e poi nemmeno citare alcuni autori come ad esempio Padre Turoldo (e dire che chi ha preso questa iniziativa è pure cattolico). Che diritto si ha di tralasciare determinati autori in un manuale che vorrebbe illustrare il nostro patrimonio letterario? Certo, non è possibile che tutto sia considerato Letteratura, ma occorre discernimento e non puntare il dito e giudicare. La Letteratura, come l’arte in generale, è libera! Non potrà mai appartenere a degli schemi. Altrimenti si parlerà degli schemi, dei modelli, delle correnti e mai dei testi e dei loro autori. I numerosi incontri letterari universitari ne sono una prova (non tutti per fortuna, ma molti). Ci si trova con un pubblico, se studenti da plagiare è meglio, parenti di qualche poeta morto e qualche giornalista locale, oltre ovviamente alla nobile schiera di colleghi; il tutto per lodare il lavoro critico svolto ed elogiare chi ha compiuto quest’ardua impresa. E il testo? E il poeta morto? Morti ancora di più.

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Bisogna smettere di classificare: è molto pericoloso. È la questione della differenza tra Petrarca e il petrarchismo: l’uno è vivo, l’altro morto. Chi scrive seguendo una corrente e si adegua a quel moto letterario non sta scrivendo, sta eseguendo. Sarà un ottimo esecutore, ma non scrittore.

Termino ripetendo un pensiero di John Ruskin che avevo già citato nel mio precedente articolo: «Tutti i libri si possono dividere in due categorie: quelli di “un’ora” e quelli di “sempre”», aggiungendo che allo stesso modo allora classificherei anche critici miopi e taluni professori.

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