NOI NON SIAMO IL 99%, SI O NO? SUL REFERENDUM E DINTORNI

di Luca Battistini

Nel momento in cui si incendia il dibattito sul prossimo referendum, a poco più di un mese di distanza dalla chiamata alle urne, anche l’Oblò dell’Arte vuole provare a riflettere insieme ai suoi lettori. Non vantando nessun giurista in redazione, ci riserviamo di non approfondire il profilo meramente tecnico della vicenda; individueremo invece il tema principale del referendum, intorno al quale verteranno le nostre considerazioni: scriveremo del proposito di rafforzamento del potere esecutivo a scapito degli organi di rappresentanza, del governo ai danni di parlamento e senato.

Innanzitutto occorre ricordare che il 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci, e quindi a giudicare. Nessun giudice può esimersi dall’analizzare le motivazioni che stanno dietro a un gesto –  in questo caso a una volontà di riforma: un ferimento dettato da legittima difesa è ben diverso da un pestaggio premeditato, e i due imputati riceveranno un giudizio altrettanto diverso. Per non perdersi nei meandri dei tecnicismi giuridici di questa immensa proposta di riforma (che investe ben 47 articoli, contro i 43 modificati in 70 anni di storia della costituzione italiana), occorre tentare di inquadrare la reale motivazione che ha spinto i legislatori Renzi e Boschi a prendere un’iniziativa di simile importanza. L’attuale governo sta cercando di modificare radicalmente il sistema governativo, elettorale e parlamentare: perché secondo loro un esecutivo più forte sarebbe maggiormente desiderabile dell’attuale situazione di bicameralismo perfetto?

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Le risposte potrebbero essere tante, e molte tra queste potrebbero anche risultare più che puntuali: l’Italia ad esempio è stata ingovernabile per decenni, e questo potrebbe essere un movente da “legittima difesa”. Lo spunto più pertinente però, che dal nostro punto di vista porta a propendere per la premeditazione, ci viene fornito dal colosso finanziario statunitense J. P. Morgan in un suo documento pubblicato il 28 maggio 2013, una relazione che, per quanto conosciuta e agilmente consultabile (https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf), non gode ancora della popolarità che secondo noi meriterebbe. I ricercatori americani, dovendo trovare la causa dell’incapacità dimostrata dai paesi dell’Europa meridionale nel mettere a punto una soluzione alla crisi economica (che peraltro ancora li affligge), scrivono a pagina 12 nel capitoletto “Il viaggio della riforma politica nazionale”: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è divenuto chiaro che ci sono problemi politici profondamente sedimentati nella periferia [tutti i grassetti sono nostre aggiunte; ndr] che, dal nostro punto di vista, devono cambiare se l’Unione Monetaria Europea funzionerà a dovere nel futuro».

E quali sarebbero questi spiacevoli problemi?

«I sistemi politici e costituzionali periferici presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni [due punti importanti sui quali si propone di intervenire la riforma costituzionale], tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori [già minati da questo governo col Jobs Act, pur non essendo stata una riforma costituzionale], tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo [unico reale difetto del nostro paese tra quelli in elenco], il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi [c’è davvero bisogno di commentare?]. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».

Prima riflessione: stando alle recenti parole rilasciate del presidente uscente Obama a Federico Rampini («Le misure di austerità hanno rallentato la crescita dell’Europa»; http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/obama_intervista-150003856/), i paesi “periferici” oggi dovrebbero ringraziare alcuni dei loro “problemi politici profondamente sedimentati” che hanno parzialmente impedito l’attuazione di “percorsi di riforme economiche e fiscali” che avrebbero nuociuto all’economia. Un esecutivo forte avrebbe sicuramente incontrato meno difficoltà nell’approvare misure di austerità, a quel tempo invocate a piena voce dagli economisti europei. Perciò viene da supporre che Obama abbia la memoria corta, oppure che cada in contraddizione (e per lui non sarebbe certo una novità) quando condanna l’austerità e approva l’amico Matteo col suo progetto di riforma, cercando i tutti i modi (vedi le dichiarazioni dell’ambasciatore americano in Italia e l’ultima cena ufficiale in onore del nostro premier) di convincere gli elettori italiani a votare sì.

Seconda riflessione: un mio caro amico greco, parlando del nostro referendum, ha definito auspicabile la possibilità che i cosiddetti tecnici si occupino di questioni delicate come le riforme costituzionali o la permanenza nell’Unione Europea. Devo ammettere che anch’io ho avuto lo stesso pensiero il giorno della Brexit (non lo avevo pensato invece nel caso del referendum promosso da Tsipras e rimasto inattuato), poi mi sono chiesto se questa possibilità fosse davvero qualcosa di così desiderabile. I tecnici, in periodo di crisi, avrebbero preso decisioni e attuato riforme che in molti col senno di poi avrebbero definito inadeguate e nocive (vedi Obama). Occorre inoltre domandarsi: in nome di quale principio e di quale ideale questi tecnici prendono le loro decisioni? Perché, ad esempio, i tecnici devono sempre essere scelti tra economisti (vedi Mario Monti e Tito Boeri, quest’ultimo annoverato tra i possibili candidati a “rilevare” Renzi in caso di governo tecnico – e sarebbe il quarto primo ministro consecutivo dal 16/11/2011 a oggi a non essere eletto dagli italiani) e mai tra sociologi, giuristi, antropologi, storici, filosofi, pedagoghi o esperti di scienze umane?

L’ultima parola sulle riforme da attuare e sulla direzione globale da intraprendere spetta sempre e solo ai tecnici dell’economia. Non però a coloro i quali dichiarano pubblicamente che con la cultura non si mangia: un tale teatrino sarebbe infatti davvero di pessimo gusto. I tecnici invece hanno sempre un profilo basso, non attirano l’attenzione con simili provocazioni; al contrario sono rassicuranti, si commuovono quando annunciano i loro tagli, prendono decisioni amare ma inevitabili che nessun politico avrebbe mai avuto il coraggio di attuare…

Un’altra riflessione: perché poi i tecnici economisti sono sempre neo(ultra)liberisti? Perché non si considera mai la possibilità di valutare la sensatezza delle idee e dei modelli di altri economisti, come ad esempio quelli di John Maynard Keynes? Il barone britannico sosteneva che l’economia si aiuta con la spesa pubblica aumentando il potere di acquisto dei consumatori, mentre con i tagli e le revisioni di bilancio (supplichiamo il mondo editoriale di eliminare il termine spending review dal vocabolario italiano!) la si affossa. Ma come può uno stato fortemente indebitato aumentare la propria spesa pubblica (manovra sconveniente a breve termine, ma conveniente nel lungo periodo) se deve rispettare criteri finanziari duramente stringenti e poco realistici come quelli che la BCE impone ai paesi dell’Unione Monetaria? E a proposito degli organi di (in)formazione: perché la stragrande maggioranza dei mass media si allinea alla logica neo(ultra)liberista delle banche centrali, delle grandi società finanziarie e di questi benedetti tecnici? Nessuno ne mette in discussione i principi, che vengono quietamente accettati come naturali e inevitabili; non andrebbero confutate le conclusioni “incontrovertibili” dei tecnici, ma proprio le loro idee! Il problema è la logica stessa che detta e decide queste conclusioni!

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Quali sono invece le nostre conclusioni? Noi riteniamo che la scelta referendaria non riguardi solo le numerose proposte di riforma della carta costituzionale. Riteniamo che la scelta riguardi la propria personale presa di posizione rispetto a un modello economico che vorrebbe imporsi come naturalmente egemone e che trova nelle costituzioni che «tendono a mostrare una forte influenza socialista» (affermazione discutibile reperibile nello stesso documento, nello stesso capitoletto, sempre a pagina 12) un fiero avversario. Un modello che trova sconvenienti le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori” e le “proteste per cambiamenti sgraditi”, che invece in una democrazia dovrebbero essere pienamente accettate come basi per un sincero confronto e un dialogo costruttivo. Quel genere di confronto che richiede tempo, sforzo, senso di rispetto e responsabilità. Quel confronto del quale un governo forte potrebbe fare a meno (si pensi all’incredibile premio di maggioranza previsto dalla riforma) per adottare misure sgradite alla popolazione, sempre più frequentemente imposte dall’Unione Monetaria Europea.

Italiani, vogliamo favorire la diffusione di un’economia neo(ultra)liberista che acuisce le disuguaglianze e che soprattutto va a minare i diritti sociali dei cittadini?

La risposta per noi è ferma e decisa: un secco e tonante No!

Vengano le popolazioni prima dei profitti, i diritti delle persone prima delle esigenze del mercato.

La cultura prima delle merci.