PIERO DELLA FRANCESCA. UN ESEMPIO DI UNIONE TRA PITTURA, AMBIENTE E TERRITORIO

di Francesco Raimondi

Uno dei motivi per cui agli occhi dei più la storia dell’arte risulta essere semplicemente una masturbazione erudita, un passatempo estivo (neanche troppo); insomma, una delle tante giostre su cui salire, è che non si comprende quale possa essere il suo legame con il presente. La sua effettiva utilità.

Per questo si dovrebbe ringraziare quegli stessi storici dell’arte che fanno delle componenti chimiche e tecniche del quadro (o di qualsiasi opera d’arte) l’oggetto precipuo della disciplina.

Ma per fortuna, alzando gli occhi al cielo, possiamo riscoprire come gli artisti (veri) hanno sempre qualcosa da comunicare: sia essa un’emozione, un messaggio, una sensazione. Nelle opere possiamo trovare quell’attenzione, quella spiccata sensibilità alla natura – ad esempio – che pare essersi smarrita con l’andare dei secoli.

Piero della Francesca, da questo punto di vista, è sicuramente un artista che è stato spesso ignorato. Sì, perché dell’artista di Borgo Sansepolcro si è scritto molto, si è scritto tanto: soprattutto per gli aspetti stilistici, formali, estetici così cari alla cosca longhiana; di Piero hanno anche evidenziato gli aspetti più simbolici ed esoterici (fortunatamente), perdendosi spesso però in una sorta di caccia al tesoro tipica di chi ha difficoltà a comprendere la stessa natura del simbolo, e scambia l’esoterismo (che di per sé è una scienza) con facciamo Superquark, Voyager, Mistero & Co..

"Battesimo di Cristo", 1448-1450 circa, part.

“Battesimo di Cristo”, 1448-1450 circa, part.

 

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #1

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #1

A tale proposito sono state fatte molte ricerche e pubblicazioni riguardo all’estetica, anche paesaggistica, dei lavori di Piero della Francesca (non ne cito nemmeno uno, perché basta scrivere “Piero della Francesca Bibliografia” su Google); addirittura alcuni studi – e trasmissioni televisive – abbastanza ridicoli sulla presenza di elementi strani, misteriosi in alcuni dei suoi dipinti. Certo, tutto lecito, in un mondo invaso dall’illusione dell’erudizione.

Però, a volte, basta alzare gli occhi al cielo, basta osservare l’ambiente, i luoghi e la natura dove gli artisti hanno vissuto per comprendere come non c’è opera d’arte senza ambiente, senza natura.

Non possiamo studiare la storia dell’arte se non siamo in grado di farne anche una disciplina ambientale e naturalistica, che tratti di territorio e di paesaggio; nella sua evoluzione storica.

Tornando a Piero, perché – ad esempio – le nuvole dei suoi dipinti hanno spesso forme insolite: piatte alla base, allungate, a fungo, a cappello? Una visione? Un messaggio nascosto (come spesso alcuni ipotizzano)? No, bensì le nuvole di casa! Sono le nuvole delle sue terre: Marche, Umbria, Toscana.

" Detta Flagellazione", 1450-1460 circa, part.

” Detta Flagellazione”, 1450-1460 circa, part.

 

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #2

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #2

E come il nostro Piero, centinaia possono essere gli esempi.

Viaggiando in quelle terre mi è capitato più volte di scrutare i cieli e vedere le stesse identiche nuvole del nostro pittore. Perché, noi storici dell’arte, dimentichiamo spesso di allargare gli orizzonti della nostra disciplina?

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #3

Nuvole nei cieli dei territori di Piero della Francesca #3

"San Girolamo penitente", 1450, part.

“San Girolamo penitente”, 1450, part.

Studiare storia dell’arte è anche lottare per la tutela del paesaggio, dell’ambiente e della natura: in tutti i suoi aspetti. Faunistico, botanico, geografico, idrico. Senza ambiente, senza natura non avremmo l’arte! E trasformeremmo così la nostra disciplina in qualcosa di immensamente utile all’uomo comune… ma forse, prima di capire ciò, dovremo ancora passivamente e inconsciamente costruire Olimpiadi, Ponti sullo Stretto, Grattacieli, Autostrade e Pedemontane, Expo e Fiere, dovremmo ancora assistere a stupri paesaggistici e ambientali in stile The Floating Piers.

Saremo in grado di cambiare?

IMPARARE DA UN CANE L’OSSERVAZIONE DELL’ARTE (E NON SOLO)

UNA PRIMA ANALISI

di Francesco Raimondi

Può sembrare una cosa assurda; addirittura infantile o priva di senso. Eppure può, per la regola del paradosso, essere anche estremamente reale.

La capacità di osservazione che ha un animale nei confronti della realtà che lo circonda è notevole: elevati risultano la percezione, la concentrazione e il saper attendere lo sviluppo dell’oggetto osservato, per meglio agire.

Più volte mi sono interessato al processo cognitivo che riguarda l’uomo e la sua capacità di approccio – mediante la vista oculare e quella mentale – nei confronti dell’opera d’arte. La conclusione a cui sono giunto è quella di uno sviluppo lineare, ed evolutivo, della dinamica di approccio: guardare, osservare, vedere. “Io guardo”, “io osservo” ed infine “io vedo”: un processo che non appartiene solo ed esclusivamente alla sfera artistica, ma a tutto ciò che riguarda l’umano; tant’è vero che questo modello processuale di approccio alla realtà è presente anche nei testi sacri di molte tradizioni religiose. Con il vedere, ossia l’ultimo stadio di ciò che chiamo meccanica visuale, noi esperiamo l’oggetto in tutte le sue parti: la conoscenza è totale (o comunque il più approfondita e seria possibile). La comprensione e il livello di coscienza del soggetto osservante sono all’apice: l’“io vedo” può forse essere considerato come la manifestazione fenomenica della coscienza umana. Solo conoscendo realmente una data cosa, posso vederla. E arrivo a questo risultato esclusivamente passando da due fasi principali: il guardare e l’osservare. Il guardare è leggere superficialmente un dato, una forma, una situazione. Limitarsi alle sue consistenze esteriori. L’osservare è l’analisi più seria: sia essa scientifica o semplicemente “personale”. L’osservare è l’incipit dell’andare in profondità, verso il significato. L’osservare è l’atto stesso del conoscere: “io conosco” se “io osservo”. Solo dopo questo osservare il mio oggetto sarò in grado, finalmente, di vedere: cioè di prendere consapevolezza di ciò che ho osservato e di conoscerlo nel profondo.

Cosa centra, in tutta questa meccanica, il cane? Premetto che non sono un etologo, né tanto meno ho conoscenze etologiche e zoologiche così approfondite da avere la presunzione che ciò che sto scrivendo sia verità. Sono riflessioni personali ad uno stadio ancora preliminare e, dunque, posso anche sbagliarmi.

La mia riflessione nasce essenzialmente dall’osservazione e dal vedere il comportamento del mio cane e di molti cani che ho la fortuna di frequentare. Appartiene ad una razza del gruppo 5 (spitz e primitivi); razza selezionata morfologicamente e caratterialmente dall’uomo quali cani destinati ad essere compagni di lavoro, oltre ad avere ancora alcune caratteristiche di temperamento riconducibili all’inizio del processo di domesticazione.

Lo spirito di coscienza di un cane, come quello di qualsiasi animale, credo effettivamente che sia – in questo secolo – molto più sviluppato di tanti milioni di uomini. E questo per un semplice ma fondamentale motivo: l’attenzione al presente. I cani – e forse gran parte degli animali – non hanno coscienza dello scorrere del tempo, seppure possiedono la cognizione del passato e del ricordo. Questo però lo leggo come un pregio: niente passato inteso nel senso puramente “umano” (quindi niente rimpianti, niente futili pensieri e sentimentalismi) e niente ossessione per il futuro. Solo ed esclusivamente il presente, filtrato ovviamente dall’esperienza. Un cane è vigile. Un cane è sempre in attenzione. 

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Il processo nel cane, che ho osservato più di una volta, andando per boschi, montagne e strade è il seguente: guardare, osservare e vedere. Infatti, questa spiccata predisposizione canina all’attenzione del “circostante” fa sì che la coscienza dell’animale sia sempre attiva. Il cane guarda e, se qualcosa desta la sua attenzione, osserva. Osserva e conosce, conosce e osserva. Una volta conosciuto il suo oggetto, vede: e questo vedere si trasforma presto in un simpatico agguantare. Ciò avviene per una preda, o semplicemente nel fare “le feste” al padrone: guarda il tuo arrivo, ti osserva (e ti ri-conosce) e infine vede, esplodendo in un tripudio di scodinzolii, leccate e “passaggi” frenetici tra le gambe. È così, grazie alla costante attenzione al presente. 

Credo fermamente che questo metodo preso a prestito dal mondo animale sia notevolmente interessante se adottato al mondo artistico, e perché no anche alla vita in genere. Solo il presente. Solo l’oggetto del mio osservare. In fondo, questo processo mantiene desta la coscienza e ne allontana sempre più un suo intorpidimento. Quanti sono gli uomini privi di gioie perché vivono nel passato o sono altresì ossessionati dal domani, dal futuro, dal tempo?

Quanto davvero può essere utile, tale metodo, se adottato per l’arte cosiddetta contemporanea e per un suo più corretto discernimento?

Quando guardiamo o ascoltiamo un’opera d’arte, il più delle volte siamo lontani da essa a livello di coscienza. Non siamo lì presenti; non viviamo quell’attimo, sia mentalmente che visivamente. Questo perché in noi affiorano immediatamente associazioni mentali (studi fatti, letture, ecc.) che ci fanno guardare ed osservare con filtri conoscitivi di altri uomini. Ma non vediamo. Guardo ed osservo un’opera di Piero della Francesca e vedo con la mente di Roberto Longhi. Forse è per questo che in ambienti accademici le dissertazioni culturali sono divenute una gara al citazionismo tra emeriti co….lleghi e basta?

Se vivessimo il presente, anche a livello di coscienza e di conoscenza, come un cane, senza filtri, senza intermediari, e con il gusto del fare esperienza, anche nell’arte potremmo realmente vedere e discernere. Nel cane, questa capacità di guardare, osservare e vedere (e quindi di conoscere) è, per usare forse una parola non troppo corretta a livello etologico, innata. Sono convinto che anche l’uomo ha questo innatismo conoscitivo; questa propensione spirituale al momento presente e al saper vedere. Ma limitiamo tutto ciò da filtri “accademici” ed intellettualistici.

Poter finalmente vedere coi nostri occhi un’opera d’arte, e non con quelli di critici e curatori e storici e eruditi, potrebbe davvero spalancarci la porta su di un mondo che, probabilmente, non conosciamo ancora, perché non vediamo.